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Tanzania....la madre terra!

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Messaggio  darioca Lun Set 06, 2010 12:20 am


“Ogni mattina in Africa, quando sorge il sole, una gazzella si sveglia, sa che dovrà correre più del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, quando sorge il sole, un leone si sveglia, sa che dovrà correre più della gazzella o morirà di fame. Ogni mattina in Africa, non importa che tu sia un leone o una gazzella, l’importante è che tu incominci a correre”

Così recita un detto. Di quanto sia vero questo detto te ne rendi conto solo visitando questi posti; non tanto nel senso stretto, perchè in realtà il leone caccia di notte, ma quanto nella morale. In Africa non conta quanto tu sia forte, quanto tu sia potente o ricco, se vuoi sopravvivere, se vuoi andare avanti, devi comunque darti da fare ed affrontare quotidianamente la vita con decisione.

La “mia Africa” è ristretta al viaggio in Tanzania, ma a detta di molti in questo paese si può assaporare quella che è l’atmosfera che si respira un po in tutti i paesi dell’Africa centrale. Un concentrato, soprattutto per quanto concerne gli animali.

Il primo impatto può essere di freddezza nei confronti di questa terra, si prova una grande sensazione di smarrimento. Ti senti spaesato, sei proiettato in un mondo molto distante da quello a cui sei abituato. Basta poco però per essere travolto dall’atmesfera che si respira. Improvvisamente ti rendi conto che nel posto che tu chiami casa i tuoi sensi erano assopiti. Improvvisamente ricominci a percepire gli odori, a vedere i mille colori, ad aprezzare anche i rumori. Improvvisamente la vita rallenta adeguandosi al ritmo lento dello stile di vita africano, sembra che il tempo trascorra più lentamente.

L’Africa è così, ti travolge con una serie di stimoli che fanno risvegliare i tuoi sensi, senza rendertene conto la parte più ancestrale della tua mente ti ricorda che il posto da dove è cominciato tutto è lì. Forse è per questo ci metti poco a trovarti a tuo agio, ci metti poco a sentirti a “casa”.

Il viaggio avrà una impronta esclusivamente naturalistica/fotografica. Ci terremo lontani dalle grandi città e passeremo la maggior parte dei tredici giorni all’interno delle immense aree protette alla ricerca degli animali. Alloggeremo per la maggior parte del tempo in campi tendati mobili con tende ad igloo piazzate in aree riservate al campeggio e qualche volta nel bel mezzo della savana.

In Tanzania esistono due tipi di campeggi: quelli organizzati con una copertura in lamiera sotto la quale consumare i pasti, un bagno e docce; poi ci sono gli “special campsite”, semplici spiazzi di terra in mezzo al niente dove è consentito montare le tende. In entrambi i casi comunque non esiste sorveglianza, non sono recintati e non di rado di notte si ricevono visite di animali.

Gli spostamenti saranno sempre in Jeep guidate da autisti locali e con noi ci sarà sempre, oltre che al nostro capogruppo/organizzatore italiano, anche un Masai. La sveglia non sarà mai più tardi delle cinque del mattino con partenza massimo per le sei. Noi, per fortuna, ci dovremmo occupare solo di avere il bagaglio pronto per la partenza. Uno staff di supporto si occuperà di anticiparci negli spostamenti, così mentre noi saremo alla ricerca di animali, loro andranno al campo successivo portando tende, attrezzatura da cucina e bagagli. Quando noi arriveremo la sera (non siamo mai arrivati prima delle sei) troveremo già le tende montate e la cena pronta.

Il viaggio è cominciato al kilimanjaro International Airport, situato alle falde dell’omonimo e famoso vulcano africano. Purtroppo come accade spesso ha la cima avvolta dalle nuvole e questo non ci consente di fotografarlo come merita la sua imponenza. Siamo in diciotto su cinque Jeep. Imbocchiamo subito la lunga ed unica strada asfaltata verso il cratere di Ngoro Ngoro. Dopo nemmeno cinque chilometri abbiamo il primo intoppo con una macchina. Gli efficienti autisti però sanno dove mettere le mani e dopo pochi minuti siamo dinuovo in marcia. In realtà la macchina durante il viaggio dimostrerà di avere molti problemi e si fermerà molte volte, per fortuna però sarà l’unica a farlo.

L’atmosfera del pomeriggio Africano ci avvolge appena usciti dall’aeroporto. La luce del sole pomeridiano rende ancora più carichi i colori. Lungo la strada ci sono venditori di tutti i tipi, ci sono centinaia di persone che camminano ai bordi delle strade, il traffico automobilistico è praticamete inesistente. Quando si passa in un centro abitato quello che mi ha stupito è la moltitudine di Bar che ci sono. Bar…….si fa presto a definirli bar. Spesso una baracca con tetto di lamiera, le pareti dai colori molto vivaci, una finestra da cui servire le bevande ed un tavolino di plastica con due sedie all’esterno sistemato su un tappeto di terra battuta costellato di tappi di Coca-Cola. Già, la Coca-Cola, in qualsiasi centro abitato, ovunque ti giri trovi un’insegna della Coca-Cola.

Raggiungiamo l’unico vero centro abitato che può essere definito una cittadina. Arusha è posta a circa metà strada tra l’aeroporto ed il cratere di Ngoro Ngoro. E’ molto caotica e sembra non esserci alcuna regola per il traffico. Con un po di pazienza la oltrepassiamo e ci fermiamo a Mto Wa Mbu (in Swahili “fiume di zanzare”) per fare il pieno alle auto e scorte di acqua potabile per la prima metà del viaggio. Ci incamminiamo ed a non più di cinque chilometri dall’ingresso della Ngoro Ngoro Conservation Area si ferma un altra macchina. Questa volta c’è poco da fare, l’auto non riparte. Si decide che le restanti auto accompagneranno gli altri all’ormai vicino lodge e poi una di queste tornerà a riprenderci.

Siamo in cinque e ci rassegnamo ad aspettare. Siamo fermi in mezzo al nulla su di una nastro di asfalto disteso su un tappeto di terra infuocata dalla luce del tramonto. Siamo praticamenti soli, con l’auto in panne e l’autista che non può fare altro che aspettare con noi. All’improvviso, come poi nel viaggio capiterà spesso, dal nulla si materializzano dei bambini. C’è chi spinge su una salita una bicicletta tutta scassata, chi porta sulla testa un secchio pieno di acqua che dovrebbe essere potabile, chi non ha niente di meglio da fare che venire a vedere questi curiosi turisti fermi in mezzo alla strada. Tutti però sono molto sorridenti e gentili e la voglia di regalargli una penna e qualche caramella ci pervade. Loro ci ricambiano con dei fantastici sorrisi e con molta gentilezza.

Comincia a fare buio, lungo la già solitaria strada non passa più nessuno. Siamo quasi rassegnati a passare la notte in macchina ma all’improvviso si materializzano i fari della Jeep che è tornata a prenderci. Sospiro di sollievo, trasbordo di bagagli e via verso il varco della Ngoro Ngoro Conservation Area. Arriviamo al varco che è praticamente buio, ci riuniamo agli altri, otteniamo dai Ranger i permessi per l’ingresso, l’enorme cancello sia apre e cominciamo la risalita delle pareti esterne del cratere.

Il grande varco al buio della notte sembra quello che si vede nel film Jurassic Park all’ingresso dell’area riservata ai dinosauri. Sarà il buio, sarà l’incognito di quello che mi aspetta, ma la sensazione è quella. Passato l’enorme cancello la strada asfaltata lascia il posto ad uno sterrato di terra di un rosso infuocato anche alla luce dei fari delle auto. Ai lati della strada una fitta foresta incombe sulla pista in terra battuta lasciando visibile una sola striscia di cielo nella quale, nonostante la luna piena, risplendono migliaia di stelle. Dobbiamo procedere con cautela perchè la pista è in ripida salita, ma soprattutto perchè c’è il pericolo di trovare, all’improvviso, degli animali per strada.

La stanchezza comincia a farsi sentire ma l’eccitazione per il posto in cui mi trovo la fa passare completamente. Come previsto all’improvviso ci troviamo due bufali davanti l’auto. Percorriamo ancora un po di strada e dai fari dell’auto vengono illuminati due grandi istrici. Percorrono un po di strada balzellando sullo sterrato, poi appena trovano un varco nella fitta vegetazione spariscono nella foresta.

Continuiamo sulla pista in terra fino ad arrivare ad un cancello oltrepassato il quale intravediamo il lodge nel quale passaremo la prima sera. E’ una bellissima e lussuosa struttura, un po distante dall’idea di africa selvaggia che ho in mente. Ma va bene, dopo due giorni di viaggio un po di confort non guasta. Costruita tutta in legno sul bordo del cratere ha dei saloni interni molto ampi dai soffitti altissimi e tutti arredati in stile etnico. Le ampie vetrate danno direttamente su una terrazza che si affaccia all’interno del cratere. Godersi il tramonto o l’alba da questo posto deve essere fantastico. Noi putroppo siamo arrivati troppo tardi per il tramonto e domani partiremo molto prima dell’alba.

Prendiamo possesso delle camere, una veloce doccia e tutti a cena. Subito dopo cena facciamo un briefing per avere un’idea di quello che ci aspetterà durante il viaggio e per organizzare gli ultimi aspetti tecnici. Prima di andare a dormire decidiamo comunque di affacciarci dal terrazzo del lodge. Ci avviciniamo alle vetrate e notiamo attacati a vetri, attirati dalle luci interne, una miriade di insetti. Falene ed altri insetti mai visti prima, soprattutto per le dimensioni.

Usciamo sul terrazzo e nonostante il buoi lo spettacolo è stupendo. La luna illumina lo specchio d’acqua in fondo al cratere. Le sagome delle pareti del cratere si stagliano contro un cielo illuminato dal perziale disco lunare, che nonosante la sua luminosità, lascia abbastanza buio il cielo per farlo risplendere di migliaia di stelle.

Stai lì sul bordo del cratere a guardarne il fondo buio, sai che laggiù, seicento metri più in basso è pieno di animali, leoni, ghepardi, gnu, zebre, elefanti, rinoceronti e chissà quant’altro. La mente comincia a fantasticare, immagini predatori che fanno agguati, prede che scappano per non soccombere, e tutto quello che fino a quel momento avevi visto solo nei documentari adesso è ad un passo da te.

Il giorno dopo sveglia alle 04.30. Vogliamo essere al varco per scendere nel cratere per le sei, prima non è consentito. Arriviamo al varco che è ancora buio, non sono ancora le sei ed il ranger non ci fa passare, sono molto rigidi. Alle sei in punto il ranger alza la sbarra, siamo i primi, e cominciamo la ripida discesa verso il fondo del cratere sul solito tappeto di terra rossa.

Il cratere di Ngorongoro si trova a 2200 metri sul livello del mare, il suo diametro in alcuni punti arriva a misurare anche 20 km ed il suo fondo occupa in totale un’area di circa 265 chilometri quadrati. Si tratta della più grande caldera intatta del mondo.

Il cratere è al centro dell’area più estesa (circa 8300 chilometri quadrati) della riserva naturale di Ngorongoro (Ngorongoro Conservation Area). Grazie alla buona piovosità, agli stagni ed ai piccoli laghi e torrenti interni, alla nebbia notturna che circonda e alimenta le foreste dei pendii del vecchio vulcano, la zona è divenuta un vero e proprio ecosistema unico. La savana occupa la zona più interna del cratere, alternandosi a tratti dipalude, macchie di acacia e zone aride semi-desertiche; al centro del cratere si trova un lago.

All’interno la concentrazione di fauna è impressionante: si calcola che sia abitato da oltre 25000 animali di grossa taglia. L’immagine più tipica è probabilmente quella degli enormi branchi di zebre e gnu, ma nel cratere abita la gran parte delle specie tipiche della savan: elefanti, leoni, bufali, iene, sciacalli, ippopotami, babbuini, nonché alcune piuttosto rare come i rinoceronti neri, ultimi superstiti di una specie che nel resto della Tanzania è minacciata dall’estinzione, e i leopardi, che vivono sugli alberi della foresta pluviale ricopre i pendii del cratere.

Innumerevoli le specie di uccelli attratte dalla riserva, che con i suoi numerosi specchi d’acqua costituisce un richiamo per la fauna migratrice: tra essi meritano una segnalazione particolare i fenicotteri, che qui costituiscono una delle colonie più numerose di tutta l’Africa. Assenti le giraffe e gli impala.

Proseguimo la lunga discesa ed i primi raggi di sole cominciano ad accendere le tonalità dorate della terra africana. Arriviamo sul fondo del cratere e ci dividiamo. Conviene farlo per aumentare le possibilità di avvistare gli animali. Nonostante la grande concentrazione di animali non è poi così facile avvistarli ed ancora meno avvicinarli. Il cratere è grande, si può stare solo sulle piste battute e gli animali spesso se ne stanno lantani. In caso di avvistamenti gli autisti comunicano la posizione agli altri via radio. Come facciano poi ad avere dei riferimenti in mezzo al nulla rimane per me un mistero.

Passa poco e cominciamo a vedere zebre, gnu, gazzelle e bufali a perdita d’occhio. Preso dalla frenesia comincio a scattare fotografie come un forsennato, non so da che parte girarmi. Ci mettò poco però a capire che quella per 13 giorni sarà la normalità e che quindi non mancheranno le occasioni.

Continuiamo a vagare sulle piste di terra battuta che quaggiù è diventata bianca e molto polverosa. Avvistiamo i primi elefanti e da lontano i rinoceronti. Come primo giorno non c’è male abbiamo visto già molto, ma mancano i grandi predatori. Ci mettiamo quindi alla ricerca dei leoni e dei ghepardi. Gli autisti continuano a scambiarsi informazioni via radio, le uniche cose che capiamo dello Swaili è Simba (leone), Washini (ghepardo) e soprattutto “pole pole”… che si gnifica “piano piano”, sarà praticamente il motto del viaggio.

La ricerca continua ma con scarsi risultati. Arriva via radio la tanto attesa notizia, da un altra macchina hanno avvistato un branco di leoni formato da un maschio, tre femmine e sette cuccioli. Sono sulla cima di una collina, lontani dalle piste e stanno scendendo a valle. Ci portiamo sulla pista più vicina ed aspettiamo che scendano, ma loro ci vedono e cambiano direzione. Riusciamo a vederli ma sono troppo lontani per fare foto decenti. Rassegnati riprendiamo la ricerca, ci sono altri gruppi di leoni nel cratere e poi potremo sempre incontrare anche i ghepardi o gli schivi rinoceronti.

Nel frattempo il sole inizia a picchiare, la Jeep è praticamente scoperta e non ha un tettuccio di protezione dal sole. Stanchi, un po delusi ed affamati, decidiamo di fare la pausa pranzo, anche perchè dopo pranzo lasceremo il cratere in direzione del lago Ndutu.

Arriviamo nell’unico posto all’interno del cratere dove è consentito scendere dalle auto. Si tratta di un posto in riva ad un lago, all’ombra di un grande albero, dove ci sono anche dei bagni e dove c’è una postazione fissa dei ranger. All’interno del lago, in lontananza, avvistiamo anche i primi ippopotami. Scendiamo dalle auto ed i ragazzi dello staff ci distribuiscono i lunch-box. All’interno troviamo quella che scopriremo essere l’immancabile coscia di pollo, un sandwich, un uovo sodo, un frutto, un succo di frutta ed un paio di biscotti.

Ci sediamo all’ombra del grande albero ed appena arrivati vediamo dei Nibbi Bruni che si alzano in volo dalla chioma dell’albero. Pensiamo che ci siano spaventati per il nostro arrivo. Apriamo le scatole e quasi tutti cominciamo a mangiare la coscia di pollo. Facciamo appena in tempo a darle un morso che come saette, quasi contemporaneamente, arrivano in picchiata questi rapaci e a qualcuno strappano dalle mani la coscia di pollo e senza tentennamenti riprendono quota con il bottino stretto tra gli artigli.

Noi rimaniamo sbigottiti sotto gli sguardi divertiti degli altri turisti e dei ranger. In un primo momento la cosa può sembrare divertente ma in realtà può essere pericolosa. Il nibbio bruno è un rapace abbastanza grosso, come una nostra poiana, con una vista superlativa ed una grande precisione quando artiglia le prede, ma se per caso sbaglia e ti artiglia un dito può fare molto male. Solo allora abbiamo capito perchè nonostante ci siano stati altri turisti ed un gran caldo, c’era posto libero all’ombra dell’albero. Vista la situazione decidiamo di consumare il resto del pasto all’interno delle auto.

Si fa ora di lasciare il cratere, e con un po di amaro in bocca per non aver visto dei leoni da vicino ci avviamo verso l’uscita dal cratere. A metà strada arriva una segnalazione via radio, non capisco niente se non “Simba”. Chiediamo ad Amin, il nostro autista, e ci dice che c’è un maschio di leone molto vicino alla pista e ad altre auto. Ci dirigiamo verso la posizione segnalata. Arriviamo sul posto e vediamo altre auto ma non riusciamo a vedere il leone. Ci accorgiamo poi che il leone è preticamente steso all’ombra di una delle auto. Amin riesce ad avvicinarsi, abbiamo il leone praticamente a non più di tre metri di distanza.

Ci chiediamo come mai non abbia paura e si sia avvicinato così tanto. Amin ci spiega che al Ngoro Ngoro, così come nella maggior parte delle aree protette, gli animali sono abituati a vedere le auto e fin quando l’uomo rimane nella sagoma del veicolo, quest’ultimo non viene percepito come una minaccia. Per questo se non ci si sporge molto dal veicolo e si rimane in silenzio, gli animali, in queste zone non scappano. In caso contrario come percepiscono la sagoma dell’uomo scappano o in casi estremi, se si sentono minacciati e non hanno vie di fuga, attaccano.

Soddisfatti di questo regalo che ci ha fatto il Ngoro Ngoro ci avviamo verso l’uscita dal cratere, si è fatta ora, abbiamo molta strada da fare e comunque nel cratere ci ritorneremo per due giorni alla fine del viaggio.

La strada per uscire passa attraverso la Lerai Forest. Un residuo di foresta pluviale impenetrabile che ricopre le pareti interne ed esterne del cratere. Mentre percorriamo la pista avvistiamo anche un branco di babbuini, camminano lungo la strada indifferenti del nostro arrivo. Ci fermiamo per qualche foto al volo e poi ripartiamo.

Il resto del pomeriggio lo passiamo in auto in direzione del lago Ndutu. Le piste che percorriamo son molto polverose. Una polvere finissima che entra dappertutto. Non c’è soluzione per difenderci da lei e ci rassegnamo a conviverci. In alcuni momenti tra i sedili posteriori e gli anteriori sembrava ci fosse nebbia. Dobbiamo tenerci a distanza dala macchina che ci precede altrimenti non si riesce nemmeno a vedere la pista. Tanto per non farci mancare niente c’è ovviamente anche un caldo infernale, si suda e la polvere si impasta con il sudore.

Dopo quattro ore di auto arriviamo a quello che sarà il nostro accampamento per due notti. Si tratta di uno “special-campsite”. Non c’è niente. Lo staff ha montato le tende formando un cerchio sotto degli alberi di acacia in mezzo al nulla. Hanno montato un tavolo da campeggio su cui mangiare, hanno montato una rudimentale doccia (20 litri di acqua per 18 persone), hanno montato quello che loro ritengono un bagno di lusso, hanno montato la zona cucina e stanno preparando la cena.

Lo sapevo che sarebbe stata così, e mi stava bene, però stasera una doccia ci voleva. Comunque ci togliamo di dosso il grosso della polvere con le salviette imbevute e ci diamo una sciquata veloce con la poca acqua disponibile. La cena è pronta. Riso, zuppa di verdure, pollo e frutta. Dopo cena facciamo un po di chiacchiere intorno al fuoco. Quello che ti stupisce è il cielo, questo telo blu notte tempestato di stelle che incombe sulle nostre teste sembra cadere da un momento all’altro, poi la stancheza si fa sentire e cominciano le prime defezioni. Dopo poco eravamo tutti nel sacco a pelo. L’escursione termica è notevole, di giorno fa molto caldo, anche trentacinque gradi, di notte si scende anche a dieci-quindici.

Prima di prendere sonno presto attenzione ai rumori della natura, il silenzio. All’improvviso si sente come un profondo, forte e lungo sospiro provenire dal profondo della boscaglia circostante. Ha una tonalità talmente bassa che ti prende allo stomaco. Dalla tenda accanto mi dicono che è il ruggito di un leone. Io immaginavo il ruggito del leone come quello della famosa casa produttrice di film, invece è molto diverso. I ruggiti si susseguono, ho un po di apprensione, ma mi spiegano che sembra vicino però in realtà il ruggito di un leone ha una frequenza talmente bassa che viaggia lontano e che questo potrebbe essere anche ad un chilometro di distanza. Comunque, dicono, che basta rimanere in tenda e si è al sicuro.

Sinceramente non sono molto tranquillo, in Italia non se ne sentono molti di leoni la notte, ma la stanchezza prevale ed in meno di cinque minuti mi addormento.

La mattina sveglia presto come al solito e facciamo colazione. E’ ancora buio, prepariamo l’attrezzatura fotografica alla luce delle torce elettriche frontali e poi tutti sulle auto. Per due giorni rimarremo nella zona del lago Ndutu in cerca di animali. Mentre ci avviciniamo al lago ci imbattiamo in grupo di leoni formato da un maschio, tre femmine ed otto cuccioli. Hanno appena finito di mangiare, hanno ancora i musi sporchi di sangue, evidentemente stanotte hanno cacciato.

I leone maschio si distende nell’erba ed aspetta che i primi raggi di sole lo riscaldino. I cuccioli giocano tra di loro, saltano nel fango, corronno nell’erba alta, si fanno agguati, per ora questi sono solo giochi, ma più in là nella vita, imparare bene queste tecniche farà la differenza tra la vita e la morte. Le leonesse incece sono distese al suolo ma rimangono vigili ed alternano la loro attenzione tra i cuccioli e le savana circostante. Si sono fermati a poca distanza da una pozza d’acqua. Noi li abbiamo a non più di quindici metri, aspettiamo un po che il sole sia più alto e cominciamo a fotografare. Sembra di essere in una puntata del National Geographic. Ad un certo punto i cuccioli si avvicinano al maschio adulto uno per volta, l’adulto gli ruggisce contro ed i cuccioli si appiattiscono al suolo come segno di sottomissione.

Appagati da quanto appena visto e fotografato, dopo un pò decidiamo di cambiare zona in cerca del ghepardo. Vaghiamo per la savana in una boscaglia di acacie. Avvistiamo un primo branco di giraffe. A differenza dei leoni queste sono meno confidenti ed appena ci vedono cominciano a correre allontanandosi. Sono sette esemplari e mentre si allontanano correndo mostrano tutta la loro eleganza. Hanno le zampe talmente lunghe che anche quando corrono sembrano andare a rallentatore. Bellissime.

Continuiamo a vagare tra sterminati branchi di gnu e zebre fino all’ora di pranzo, consumiamo velocemente il lunch-box all’ombra di una acacia e poi ancora in auto. Nel pomeriggio troviamo un altra famiglia di leoni con cuccioli. Questa volta riusciamo ad avvicinarci veramente molto. Siamo a non più di tre metri dal maschio adulto. E’ molto indifferente alla nostra presenza, così mentre noi siamo con le macchine fotografiche ad aspettare che si giri verso di noi, Amin decide di alzarsi sul tetto dell’auto per attirarne l’attenzione. Lo fa anche troppo, il leone spaventato fa un balzo verso l’auto, ruggisce, ci mostra i denti e ci minaccia. Reazione lecita la sua, io mi sono spaventato per la sua inaspettata reattività, ma mentre stai li a non più di tre metri da lui, mentre ti minaccia con un poderoso ruggito, la cosa che mi ha fatto veramente gelare il sangue è stato incrociare il suo sguardo dritto negli occhi. Lo guardi negli occhi ed immediatamente percepisci tutta la forza della natura, tutto il suo selvaggio e bestiale istinto, uno sguardo che è un misto tra spaventato e minaccioso dal quale traspare tutta la sua aggressività. E’ vero, eravamo al sicuro nell’auto, ma un brivido mi ha comunque percorso la schiena.

Si fa tardi ed il sole comincia scendere, ci avviamo verso l’accampamento. Ci diamo una pulita, ceniamo e poi facciamo il bilancio della giornata intorno al fuoco. Qualcuno tira fuori una bottiglia di grappa e tra quetsa e la stanchezza anche stasera arriva il momento di andare a dormire.

Il giorno dopo solita colazione a base di tè caldo e biscotti e sempre alla luce delle torce prepariamo i bagagli. Oggi trascorreremo la mattinata sempre in zona del lago Ndutu, poi nel pomeriggio ci sposteremo verso il Serengeti nella zona del fiume Seronera. I bagagli quindi li ritroveremo stasera al campo tendato al Seronera.

Passiamo dalla pozza d’acqua e troviamo nuovamente la stessa famiglia di leoni. Nel frattempo una macchina ha un problema. Per fortuna gli autisti riescono a risolverlo velocemente e si riparte.

Avvistiamo tre ghepardi che hanno appena cacciato un cucciolo di gnu. Due di loro stanno ancora banchettando mentre il terzo è disteso al sole con la pancia piena. Ci fermiamo ad assistere al banchetto, anche in questo caso siamo molto vicini. Non sembrano essere disturbati dalla nostra presenza e noi scattiamo molte fotografie.

Finito il banchetto si puliscono a vicenda il muso sporco di sangue e poi tutti e tre si allontanano dalla carcassa lasciando i resti agli avvoltoi che erano poco più in là ad aspettare il loro turno.

Noi li lasciamo in pace e riprendiamo a vagare tra gnu, zebre e gazzelle. Avvistiamo altri due ghepardi che sembrano essere in caccia. E’ mattina inoltrata è non è l’orario giusto per la caccia dei ghepardi. Quando fa troppo caldo questi animali non possono sostenere a lungo uno sforzo come richiede una caccia. Nonostante ciò questi due sembrano aver puntato uno gnu, preda anche molto grossa per loro.

Decidiamo di tenerci a debita distanza nella speranza di assistere ad una scena di caccia. Dopo aver atteso a lungo invano, dopo un lungo e faticoso avvicinamento dei felini, lo gnu si accorge della loro presenza e scappa. E’ andata male sia a noi che ai ghepardi, ma è stato comunque molto bello vederli nel mettere in atto le tattiche di avvicinamento alla preda.

Pranziamo velocemente anche oggi e poi ci dirigiamo verso il Naabi-Gate, porta d’ingresso meridionale del Serengeti.

Il Parco nazionale del Serengeti è una delle più importanti aree naturali protette dell’Africa orientale. Ha una superficie di 14.763 km², e si trova nel nord della Tanzania, nella pianura omonima, tra il lago Vittoria ed il confine con il Kenya. È adiacente al parco Keniota del Masai-Mara e ad altre importanti riserve faunistiche. È stato dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 1981. Il nome del parco, nella lingua delle popolazioni maasai, significa “pianura sconfinata”.

La presenza umana nell’area del Serengeti fin da tempi antichissimi è testimoniata da ritrovamenti archeologici di straordinaria importanza; nella pianura del Serengeti si trova il celebre sito di Olduvai, dove sono stati trovati i resti di un ominide risalente a circa 1,5 milioni di anni fa.

La parte meridionale del parco è costituita da vaste praterie aride, interrotte da collinette di roccia granitica spesso circondate da cespugli e alberi, e note localmente come kopjes. Queste piccole formazioni rocciose sono affiorate in seguito all’erosione del terreno circostante da parte degli agenti atmosferici. Procedendo verso nord il paesaggio cambia: la maggiore piovosità, che alimenta anche qualche fiumiciattolo permanente, favorisce la crescita di foreste e la formazione di zone di savana alberata (caratterizzata da boschetti di acacia) e di savana di boscaglia spinosa.

Dopo un pomeriggio in auto attraverso bellissimi paesaggi, arriviamo nella zona del Seronera. Il paesaggio nelle vicinanze del fiume è caratterizzato da boscaglia di acace. Alla luce calda del tramonto scorgiamo in lontananza un branco di elefanti. Abbiamo un permesso fotografico speciale che ci consente in questa zona di uscire dalle piste, ma nonostante questo non possiamo avvicinarci al branco perchè tra noi e loro c’è un piccolo canyon.

Mentre percorriamo la pista in terra battuta incrociamo un altra macchina di turisti. Amin si ferma a scambiare qualche battuta con l’altro autista, sembrano conoscersi bene. Finito lo scambio di battute Amin ripete …”Wagiù….Wagiù”…..capiremo poi che significa leopardo. In pratica l’altro autista gli ha indicato un posto dove è stato avvistato un leopardo che riposa su un albero. Arriviamo sul luogo segnalato, l’albero è un po distante dalla pista ma noi grazie al permesso fotografico riusciamo ad avvicinarci. Il leopardo non è affatto disturbato dalla nostra presenza, ci avviciniamo talmente tanto che gli siamo praticamente sotto, se il leopardo dovesse cadere dall’albero entrerebbe direttamente in auto dal tettuccio aperto. Facciamo di tutto per attirare la sua attenzione ma lui niente, continua a riposare svaccato sul suo bel ramo godendosi il tepore del tramonto.

Il Seronera a detta di molti è il posto dove si hanno maggiori possibilità di avvistare un leopardo. Il suo habitat comune è la savana ma può vivere anche in foreste, deserti e terreni montuosi. Cacciatore solitario e prevalentemente notturno (per questo, difficilissimo da avvistare e filmare). Uccide le sue prede con un poderoso morso al collo, prede che è in grado di trascinare a lungo, grandi e pasanti anche quanto lui (es. gazzelle, o impala..) e di portarle con sè su un albero per mangiarle con tranquillità, senza rischiare di doverle difendere e dover affrontare altri carnivori (es. iene, leoni, o anche grandi uccelli). Raggiunge anche i 90 kg di peso, i 190 cm di lunghezza e gli 80 cm di altezza al garrese.

E’ un animale bellissimo, un animale dalla grande eleganza. E’ in assoluto il felino più bello che ho mai visto, ha una corporatura molto armoniosa e proporzionata, possente ma non tozzo, agile ma non esile. Ha uno sguardo glaciale.

Facciamo molte foto, poi il sole tramonta e noi ci dirigiamo verso il nostro accampamento. Riuscire ad avvistare un leopardo appena arrivati al seronera non è male. Arriviamo al campo, si tratta di un campeggio un po meglio organizzato (per modo di dire). Ci sono anche altre tende montate. Le nostre sono montate a poca distanza da una semplice struttura che ospita due docce e due bagni. C’è anche un’area coperta adibita al consumo dei pasti. Oltre ad essere coperta è anche chiusa tutto intorno con una rete metallica per evitare che i babbuini ti vengano a rubare il cibo mentre mangi. Il campeggio è situato comunque in una zona aperta a stretto ridosso della boscaglia circostante. Resteremo in questo campeggio tre notti.

Facciamo finalmente una doccia, l’acqua è poca e fredda e bisogna sbrigarsi per lasciarne anche agli altri. Poi ceniamo alla luce di lampade al petrolio e chiediamo ad un autista se ci accompagna in un lodge vicino per acquistare delle birre fredde e qualche coca-cola.

Facciamo come al solito il bilancio della giornata, siamo tutti più o meno soddisfatti. Poi ognuno si dedica alla manutenzione e pulizia dell’attrezzatura fotografica o a fare copie di sicurezza delle foto scattate. Verso le dieci sentiamo il ruggito di un leone provenire dalla boscaglia, non gli diamo molto peso, ormai ci abbiamo fatto l’abitudine, ma quando uno degli autisti ci raggiunge e ci dice…..”ragazzi è meglio se andate a dormire e vi chiudete nelle tende, è appena passata una leonessa nell’accampamento”….un po di apprensione ci ha preso. In realtà i leoni non attaccano l’uomo, appena percepisce la sagoma di una persona, scappa. Di notte però sono spesso a caccia e nel buio potrebbe scambiarti per una preda, per questo all’interno della tenda, pur essendo un debole riparo, sei al sicuro.

La mattina successiva sveglia prestissimo come al solito e saliamo in macchina dirigendoci verso il cuore del Serengeti, esattamente verso la zona del Gol-Kopies. Si tratta di una vasta prateria dove all’improvviso si ergono degli immensi ammassi di granito (kopi). Grazie al permesso fotografico possiamo uscire dalle piste e cercare gli animali. Siamo gli unici a poterlo fare in questo momento, ci troviamo spesso quindi da soli in mezzo al niente. Praterie sterminate puntellate da mandrie a perdita d’occhio di bufali, zebre e gazzelle. Il Serengeti. Solo il nome richiama alla mente i documentari visti decine di volte alla televisione ed ora ci sono nel bel mezzo. La linea dell’orizzonte della savana oltre ad essere sporadicamente interrotta dai Kopies spesso si ferma a ridosso di una leggera collina. La raggiungi per vedere cosa c’è oltre, scollini ed indovina cosa c’è dietro?…..altra savana. E così ancora, ancora ed ancora, sembra un gioco infinito. Nel frattempo oltre agli gnu, zebre e gazzelle vediamo e fotografiamo anche altri animali come elan, topi, sciacalli, otocioni, gru, marabù, avvoltoi, otarde e tanto altro, ma il nostro obiettivo e riuscire a vedere una caccia di un leone o di un ghepardo.

Passiamo tre giorni a vagare nella savana ma non riusciamo a vedere alcuna scena di caccia, qualcuna l’abbiamo mancata di poco. Abbiamo visto avvoltoi litigare per una carcassa di zebra, lotte furiose per garantirsi l’accesso al cibo. Hanno il collo lungo e privo di piume per evitare di rimanere incastrati quando infilano la testa nelle carcasse. Quando trovano un animale morto e non sventrato da altri predatori cominciano a mangiare una carcassa da dove la pelle è meno spessa e dove c’è un accesso già libero per l’interiora, dal posteriore!

Abbiamo poi visto molti leoni, in particolare una famiglia che si cibava di una carcassa puzzolente e marcescente di gnu. Uno gnu era evidentemente caduto in una pozza piena d’acqua non riuscendone più ad uscire e morendoci dentro. I leoni erano lì a cibarsene non curanti del nauseabondo fetore che emanava la carcassa.

Abbiamo anche avvistato un ghepardo che aveva da poco catturato un cucciolo di gazzella, ma niente scena di caccia.

Nei pressi del seronera abbiamo anche avvistato un bellissimo branco di elefanti che sostavano all’ombra di una gigantesca acacia. Ci sono diversi cuccioli, e gli esemplari più grandi si frappongono tra noi e loro.

Nelle due sere che siamo tornati al Seronera abbiamo avuto grandi soddisfazioni con il Leoprado. In particolare l’ultima sera dove abbiamo avuto la fortuna di trovare la luce giusta ed un esemplare collaborativo. Si è praticamente messo in posa per farsi fotografare, per fortuna che avevamo il permesso di uscire dalle piste. Subito dopo il leopardo abbiamo avuto la segnalazione della presenza di due giovani leonesse su un albero. E’ una situazione molto particolare. I leoni raramente salgono sugli alberi, sono forti ma sono molto più pesanti e meno agili di un leopardo.

Arriviamo sul posto e troviamo due giovani femmine appollaiate sui rami di una acacia. Riusciamo a fare qualche scatto alla bellissima luce del tramonto, poi decidono che è ora di scendere e dirigersi verso la savana. Spariscono allontanandosi tra l’erba alta.

Il tempo sembra peggiorare si avvicina un temporale, all’orizzonte sono evidenti le colonne d’acqua che le nuvole scaricano verso il suolo. Mentre ci dirigiamo al campo avvistiamo un altro gruppo di cinque leonesse appollaiate su una grossa acacia. Ci fermiamo e decidiamo di aspettare che scendano. Non tardano molto a farlo e si incamminano dirigendosi con fare guardingo verso un branco di gnu.

Il temporale ci raggiunge, piove a dirotto ed il pensiero va alle tende ed alla notte che
ci aspetta. La pista rapidamente si trasforma in un nastro di viscido ed insidioso fango, saltuariamente interrotto da grosse pozze d’acqua di cui non se ne conosce la profondità.

Amin guida come se lo stesse facendo sulle uova, non possiamo fermarci, farlo significherebbe quasi sicuramente non riuscire più a partire. Rischiamo il testacoda un paio di volte, ma Amin sa il fatto suo, sembra essere a suo agio, non ha difficoltà a controllare il mezzo e riprenderlo quando inizia a sbandare. C’è anche da dire che le Land Rover sono mezzi inarrestabili…..se messi nelle mani giuste. Noi siamo comunque in tensione.

Dopo aver fatto una ventina di chilometri così, arriviamo al campeggio. Continua a piovere ed aspettiamo che smetta un pò. Dopo un decina di minuti smette, scendiamo dalle auto chiedendoci se le tende avranno resistito. Con grande soddisfazione scopriamo che le tende hanno tenuto benissimo ed anche i bagagli sono praticamente tutti asciutti.

Solita doccia, cena, controllo attrezzatura e poi tutti a dormire. Prima di tornare alla tenda faccio un salto al bagno alla luce della torcia. Mi giro e vedo due puntini arancioni che mi guardano dal buio della boscaglia. Torno alla tenda e mi dicono che se erano arancioni si trattava degli occhi di una iena, non c’è da preoccuparsi (e ti pareva).

Andiamo a dormire che ricomincia a cadere una pioggerellina molto sottile. Durante la notte vengo svegliato da quelle che realmente sembrano risate a denti stretti. Avevamo praticamente un gruppo di iene che correva tra le tende. Si sentiva chiaramente il loro verso, si stavano probabilmente litigando i resti di qualche preda. Passavano correndo avanti ed indietro accanto alle tende e lasciando percepire distintamente il loro passo di corsa avvicinarsi ed allontanarsi.

Si fa mattina, è ancora buio e prepariamo i bagagli, stasera dormiremo al Lobo-lodge. Si trova a metà strada tra il Seronera ed il lago Natron. Saranno quindi due giorni di tappe di trasferimento durante i quali però non mancheranno gli spunti fotografici.

Il tempo non è dei migliori ed il cielo minacia pioggia. La strada che dobbiamo fare non è molto bella. Ci aspettao due goirni di viaggio lunghi e duri, se il tempo non ci assiste potrebbe essere necessario tornare indietro, soprattutto il tratto che dal Lobo va al Natron è particolarmente brutto.

Partiamo ed il tempo durante la stada sembra migliorare. A parte qualche impantanamento e qualche normale sbandata sul fango tutto fila liscio. Una macchina buca una ruota, è necessario fermarsi e cambiarla. Quella che in Italia è un’operazione che richiede pochi minuti, in Africa in mezzo al fango e su un fuoristrada richiede un po di tempo in più, e poi ……”pole-pole”……


darioca

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Tanzania....la madre terra! Empty Re: Tanzania....la madre terra!

Messaggio  darioca Lun Set 06, 2010 12:21 am

Mentre gli autisti provvedono al cambio della ruota, per noi diventa una bella occasione per entrare in contatto con gli abiatanti del posto. Abbiamo forato in prossimità di un villaggio fatto di capanne di terra e paglia. Come al solito dal nulla si sono materializzati decine di bambini incuriositi. Ci divertiamo a fargli delle fotografie e a fargliele vedere sul monitor delle macchine fotografiche. Inizialmente sono spaventati, non si avvicinano a noi, poi la curiosità prevale e quando si rivedono in fotografia si divertono molto ed alla fine praticamente sono loro a chiederci di fotografarli.

Rimesso a posto il mezzo ripartiamo. Ci fermiamo per il pranzo al volo come al solito. Il tempo volge dinuovo al brutto. Ricomincia piovere e la pista ridiventa un nastro di fango. Ormai siamo consci delle capacità di guida di Amin e siamo abbastanza tranquilli, ma il pensiero, non solo nostro ma anche degli autisti, va al giorno dopo, quando dovremo affrontare il tratto più brutto.

Facciamo una sosta alla Retima Hippi-Pool per fare qualche foto agli ippopotami.

Dopo aver fatto una deviazione su un tratto di pista molto dissestato, arrivamo alla pozza dove sono gli ippopotami. In realtà non si tratta di una pozza ma di un’ansa di un fiume dve l’acqua scorre molto lentamente e dove gli ippopotami trovano riparo.

Nella pozza c’è tanta acqua, ma nonostante questo il fetore degli escremeti degli abitanti è pestilenziale. Non so come facciano a viverci dentro. Spesso li abbiamo visti riemergere con il muso sporco di feci.

L’ippopotamo è un animale anfibio, trascorre la maggior parte del giorno immerso in acqua, fuoriuscendo al tramonto per dirigersi verso i pascoli, ove rimane fino all’alba. Vive in branchi più o meno numerosi composti principalmente da femmine e piccoli. Da adulti non hanno nemici naturali. Viene cacciato per l’avorio ricavato dalle sue zanne.

Oltre che dal fetore veniamo accolti dai loro versi che sono un misto tra un ruggito ed un ansimare. Ci teniamo a debita distanza dall’acqua.

Alcuni esemplari lottano sott’acqua e poi all’improvviso fuoriescono con le bocche spalancate mordendosi a vicenda.

Stare vicino all’acqua è pericoloso, potrebbero percepirlo come minaccia, e nonostante la sua mole questo pachiderma è molto agile, soprattutto in acqua. Potrebbero balzare fuori, azzannarti e portati in acqua in un baleno. Non mi stupisce che in Africa sono gli animali che provocano più morti tra gli uomini.

Può arrivare da adulto fino a 4 metri di lunghezza e pesare fino a 4 tonnellate.

Arriviamo al lodge. Piove a dirotto. Il lodge è una bellissima struttura in legno perfettamente integrata con l’ambiente circostante ed è costruita su un immenso Kopi. Dalla sua vetta dicono si domini tutta la savana sottostante, ma è praticamente buio pesto, piove a dirotto e non riusciamo a godere di questo spettacolo.

Prendiamo possesso delle camere, finalmente un daccia calda e poi tutti a cena nel lussuoso ristorante. Ci godiamo un regale pasto caldo servito a tavola e decidiamo di accompagnarlo con un buon vino. Tutti non vediamo l’ora di infilarci in un letto. Dopo sei giorni di tenda e sacco a pelo riposare bene è molto gradito.

Decidiamo che il giorno dopo, visto il tempo, ci alzaremo rlativamente tardi, è inutile alzarsi prestissimo e partire con il buio. Io mi alzo comunque prima dell’alba, voglio vedere se riesco a godere di quello spettacolo di cui mi hanno raccontato.

Alle sei sono già pronto alla reception con il bagaglio. Su di noi incombe l’incognita del tempo e soprattutto delle condizioni della strada. Potremo proseguire o dovremo tornare indietro?

Vado a fare una abbondante, comoda e succulenta colazione e poi mi inoltro per un breve sentiero che raggiunge la vetta del kopi. Con me c’è anche un mio compagno di viaggio che ha sposato la mia idea.

Il cielo sembra essere abbastanza sgombro dalle nubi, il pericolo pioggia sembra scampato. Raggiungiamo la vetta giusto in tempo per ammirare il sole che rischiara l’infinita e verdissima savana sottostante. I caldi raggi del sole mattutino donano un caldo carico colore dorato a tutto ciò che colpiscono.

Uno spettacolo straordinario. Qui nel nord del Serengeti il paesaggio cambia completamente. C’è molta più vegetazione e la natura sembra essere più rigogliosa. Il lodge è costruito veramente in una posizione da favola, dalla terrazza, sulla quale è ospitata anche una piccola piscina, si domina un paesaggio infinito e si riescono spesso a vedere anche degli animali.

Siamo pronti per la partenza. Caricati i bagagli, ci incamminiamo in direzione del lago Natron. Affrontiamo subito un tratto di strada abbastanza impervio. Pozze di fango, ripide pietraie e guadi di corsi d’acqua. Il tempo sembra reggere, è nuvoloso ma non minaccia pioggia.

Arriviamo al varco di uscita del Serengeti. I ranger che lavorano lì non hanno mai visto un permesso fotografico. Gli autisti ed il nostro capogruppo vengono travolti in un’animata discussione. Praticamente chiedono che venga pagato un giorno in più di sosta nel Serengeti che in realtà era compreso nel prezzo del permesso fotografico. Niente da fare, dopo più di un’ora di trattative ci arrendiamo e decidiamo di pagare, tanto si tratta di pochi dollari a testa. Non abbiamo però abbastanza contanti con noi così chiediamo di pagare con carta di credito ma il ranger ci dice che accettano solo contanti. Dopo un po di discussione si indispettisce, non vuole più nemmeno i conatanti che nel frattempo siamo riusciti a mettere insieme e ci dice che dobbiamo tornare indietro fino al Naabi-Gate. Incredibile, siamo praticamente bloccati nel parco del Serengeti, in genere hai problemi ad entrare e non ad uscire da posti dove si paga.

Dopo praticamente quattro ore di estenuanti trattative, la situazine si sblocca grazie ad una pressante opera di convincimento di uno dei nostri autisti e del capogruppo, possiamo ripartire ma abbiamo perso quattro ore di prezioso tempo.

La mattinata trascorre così. Per pranzo ci fermiamo in un piccolo villaggio per consumare i nostri lunch-box. Lo facciamo in un bar che in cambio dell’acquisto di alcune bevande ci mette a disposizione una saletta con dei tavolini. Siamo tutti soddisfatti, stanchi ma sodisfatti per non essere dovuti tornare indietro. Il nostro capogruppo raffredda subito gli animi dicendoci che in realtà il tratto più brutto di strada ancora lo dobbiamo affrontare.

Nel pomeriggio ci aspetta un tratto di strada che passa nella Rift-Valley caratterizzato da forti pendenze e fondo roccioso. Facciamo rifornimento presso una rudimentale stazione di servizio e ci incamminiamo in direzione lago Natron. La strada si presenta da subito difficile. Ripide discese dal fondo pietroso si alternano ad altrettanti salite dopo essere passati attraverso dei guadi. Stretti tornanti si susseguono affaciandosi su ripide scarpate. Bisogna andare molto piano e con cautela.

All’interno della Rift-Valley sembra di essere tornati indietro di migliaia di anni, a quando tutto è cominciato.

La Rift Valley o anche Grande Fossa Tettonica nei testi in Italiano, è una vasta formazione geografica e geologica che si estende per circa 6400 km in direzione nord-sud della circonferenza terrestre, dal nord della Siria al centro del Mozambico. La valle varia in larghezza dai 30 ai 100 km e in profondità da qualche centinaio a parecchie migliaia di metri. Si è creata dalla separazione delle placche tettoniche africana e araba, che iniziò 35 milioni di anni fa, e dalla separazione dell’Africa dell’est dal resto dell’Africa, processo iniziato da 15 milioni di anni. Il nome alla valle fu dato dall’esploratore John Walter Gregory. Qui sono stati ritrovati i resti fossili di un antichissimo ominide primitivo, cui fu dato il nome di Lucy, uno scheletro quasi completo di australopiteco, che fu scoperta dall’antropologo Donald Johanson.

Lungo la strada, su una ripida discesa troviamo un autobus che si è insabbiato mentre procedeva in direzione contraria. Ci fermiamo per chiedere se hanno bisogno di aiuto ma ci dicono che sta per arrivare un mezzo pesante per tirarlo fuori.

La strada contnua tra canyon e grandi rocce. Il colore delle pietra assume mille tonalità di marrone. Sulle pareti dei canyon si nota benissimo la stratificazione della roccia che nei secoli ha assunto varie tonalità dando l’impressione di guardare un fantastico arcobaleno roccioso.

Lungo la strada ci fermiamo a visitare un villaggio della tribù dei Sonjo. Veniamo subito assaliti da una moltitudine di bambini che ci urlano “pen…..pen….pen…..”, chiedono penne. Non ci facciamo pregare e ne distribuiamo qualcuna della scorta che abbiamo portato dall’Italia. Riceviamo in cambio dei sorrisi stupendi ed assistiamo spesso a delle vere e proprie lotte per accaparrarsene una. Capiamo allora che è meglio non distribuirle così. Prendiamo contatti con il capo villaggio e chiediamo l’autorizzazione per entrare nel villaggio e fare qualche foto. Previo pagamento di un’offerta e la donazione di penne e quaderni riceviamo l’autorizzazione.

I Sonjo (nome nativo Batemi) sono un popolo che vive nel nord della Tanzania, 30-40 miglia a ovest del Lago Natron, che ha vissuto per secoli come una enclave isolata in territorio Maasai. Si tratta di una tribù stanziale in questa zona, vengono detti chiamati anche Sonjo ma il loro nome è Batemi. Da sempre si differenziano dai Maasai – pastori seminomadi – per il fatto di essere sedentari ed agricoltori, e per aver sviluppato un originale sistema di irrigazione delle loro terre basato su solchi che raccolgono e canalizzano la acque.

Per secoli Sonjo e Maasai hanno combattuto tra di loro. Nel corso di tali guerre tribali i Sonjo hanno imparato a difendere i villaggi sempre meglio, sviluppando la tecnologia per innalzare doppie palizzate di legno con poche vie d’ accesso, strette e ben difese da porte sempre in legno massiccio. A quei tempi in cui le guerre si combattevano con lance (i Maasai) e frecce (i Batemi) erano difese efficacissime.

Passiamo attraverso l’unico varco nella doppia palizzata di legno che circonda il villaggio. Questa palizzata ha una funzione difensiva ed è un retaggio dei violenti scontri che in passato i Sonjo avevano con i Maasai. All’interno centinaia di bambini ci circondano in modo molto pressante ed insistente. Ci dirigiamo verso il punto dove gli anziani del villaggio sono impegnati in un gioco lanciando delle piccole sfere in un tronco di legno nel quale sono scavate diverse vaschette.

Uno degli anziani disturbato dalla confusione che facevano i bambini si alza in piedi, è bastato questo perchè calasse un immediato silenzio e perchè i bambini si allontanassero.

Assistiamo per qualche minuto al gioco senza capirne le regole. Facciamo qualche foto alle persone, ai bambini ed al villaggio, poi distribuiamo al capo villaggio le penne ed i quaderni. Decidiamo poi che è ora di andare ed usciamo dal villaggio accompagniati da uno sciame di ragazzini attraverso la medesima porta. Abbiamo la sensazione di attraversare una porta che metta in collegamento due mondi diversi.

Arriviamo nei pressi della spianata che ospita il lago Natron. Prima di scendere verso il lago ci fermiamo in un punto panoramico da cui è possibile ammirare tutta la spianata dalla quale si erge maestoso il perfetto cono del vulcano Ol Doynio Lengai. Peccato che sia tardi e c’è pochissima luce anche a causa del cielo coperto.

Avremmo dovuto organizzare la risalita a piedi del vulcano, ma visto le piogge del giorno prima e quelle che il cielo minaccia ora, le guide ci consigliano di non andare per via delle brutte condizioni del terreno che sicuramente troveremo. Noi ci fidiamo dei loro consigli e desistiamo.

Arriviamo al campeggio nei pressi del villaggio Maasai Engare Sero che è già buio. Troviamo come al solito le tende già montate e la cena pronta. Riusciamo a fare una doccia fredda e poi a cena. Il campeggio è dotato anche di una bella zona pranzo all’aperto, con tavoli in legno e molto elegantemente arredata in stile etnico. Accanto c’è un bel e fornito bar. Dopo cena ci fermiamo a bere una birra ghiacciata e poi andiamo ad assistere alle danze tribali Maasai.

Sono danze organizzate appositamente per i turisti ma assistervi alla luce del falò è molto suggestivo. Contribuiscono poi a creare atmosfera i canti dei Maasai che sembrano delle nenie ripetute quasi con una cadenza ipnotizzante. Il tutto senza accompagnamento di musica.

Dopo le danze andiamo a dormire, domani rimarremo in zona per visitare il lago Natron ed il villaggio Maasai. Sveglia presto per essere sulle sponde del lago alle prime luci. Arriviamo sul posto e le auto si fermano a molta distanza dalle rive del lago. Scendiamo dalle macchine e ci avviamo a piedi verso l’acqua. Capiamo solo dopo perchè si siano fermati così lontani, il terreno è praticamente un ammasso di melma in cui si sprofonda. Arriviamo fin dove possiamo. A dispetto di tutte le previsioni meteo oggi il cielo è sgombro. Il sole fa capolino da dietro il vulcano ed illumina il tappeto di fenicotteri rosa disteso sulle acque del lago. Passiamo un po di tempo a fotografare i fenicotteri ed il paesaggio, poi ci dirigiamo verso il villaggio Maasai.

Qui veniamo accolti dall’immancabile orda di bambini. Subito dopo il capo villaggio ci porta anche qui ad assistere ad una tradizionale danza Maasai.

I Masai (o Maasai) sono un popolo nilotico che vive sugli altopiani intorno al confine fra Kenya e Tanzania. Considerati spesso nomadi o semi-nomadi, sono in realtà tradizionalmente allevatori transumanti, oggi spesso addirittura stanziali (soprattutto in Kenya).

Sono tradizionalmente pastori, e la loro cultura gravita attorno la cura del bestiame. Ci sono prove certe di un periodo agricolo prima dell’arrivo nelle aree che occupano odiernamente, e la tendenza verso l’agricoltura e la sedentarizzazione è sempre più spinta a causa dei pascoli sempre più limitati e dal bisogno di denaro contante che ha sostituito il sistema di baratto della società pre-coloniale.

Subito dopo la danza ci dirigiamo verso la scuola del villaggio. Semplici strutture in mattoni con tetti in lamiera e pavimento in terra battuta. La scuola ospita 500 bambini tra scolari delle classi elementari e medie. La gestiscono un direttore e cinque insegnanti. I bambini indossano una camicia azzurra ed un bermuda color begie, mentre le bambine hanno un grembiule azzurro. Magari sporche, strappate, scalzi però tutti indossano la propria tenuta. Ci fanno entrare in un aula dove una marea di teste more che sbucano da una distesa di abiti blu ci accoglie con un canto/filastrocca in Inglese.

Le aule sono molto spoglie, qualche banco, una lavagna e nient’altro. Andiamo presso quella che dovrebbe essere la direzione accompagnati anche qui da una marea azzurra.
Lasciamo al direttore i quaderni e le penne che abbiamo portato dall’Iatalia, facciamo anche una donazione in denaro. Il direttore ci spiega che nonostante le scarse risorse riescono a garantire un pasto caldo al giorno a tutti gli scolari. Le famiglie sono per questo invoglite a mandare i bambini a scuola, in questo modo i piccoli hanno almeno un pasto assicurato e la famiglia si sgrava di tale onere.

Ci invitano a vedere quella che è la cucina dove preparano e distribuiscono il vitto. Una grande capanna fatta con stecchi di legno con una copertura in lamiera. All’interno sulla terra nuda sono accesi due fuochi sui quali sono appoggiati due pentoloni in cui cuociono una zuppa e del riso. I ragazzini più grandi si alternano nella distribuzione delle razioni. All’esterno sotto un sole cocente i bambini si sistemano in fila per prendere la propria razione. Ognuno di loro porta in una mano una tazza, una scodella, un piatto dentro il quale verrà riposta la propria razione. E’ superfluo dire quanto siano precarie le condizioni igenico sanitarie. Nell’altra mano spesso hanno un secchio od un bidoncino. Tornando a casa, magari distante decine di chilometri da fare a piedi, dovranno passare al fiume per prendere l’acqua.

Lasciamo con rammarico e con una ferita al cuore questa marea azzurra. Sono tutti sorridenti e sembrano non volerti lasciar andare. In tutto il viaggio ho raramente visto un bambino piangere, e anche quando succede lo fanno come a volte nemmeno un grande riesce a fare, senza capricci, senza disperarsi.

Ritorniamo al campeggio dove in nostro onore i Masaai macellano (un eufemismo) una capra. Mangeremo capra per due giorni, i nostri cuochi ce la prepareranno in tutte le salse.

Il pomeriggio, dopo pranzo, ripartiamo in direzione Karatu. Visto che non siamo saliti sul vulcano il nostro programma è cambiato, così abbiamo un giorno libero e dobbiamo decidere cosa fare. Abbiamo deciso di andare a visitare due delle tribù che vivono in una regione più remota rispetto alle classiche rotte turistiche, nei pressi del lago Eyasi, i Datoga e gli Hadzabe. Per fare ciò penotteremo in un campeggio nei pressi di Karatu. Arriviamo al campeggio, questo veramente ben organizzato. Stasera ci occupiamo anche del montaggio delle tende. Facciamo la doccia, ceniamo, beviamo qualcosa al bar e poi facciamo anche un salto all’internet point (finalmente riesco a dare notizie di me).

La mattina successiva ci muoviamo in direzione lago Eyasi. Ci fermiamo in un villaggio per prendere con noi una guida che ci porterà presso le due tribù. Dopo un po di strada in mezzo alla boscaglia arriviamo in un punto dove la macchina non può più passare. Lasciamo i mezzi e continuiamo a piedi. All’improvviso dietro un muro di vegetazione si para davanti ai nostri occhi il letto di un fiume con le sponde molto alte. I colori della natura in questo posto sembrano essersi ridotti a tre, il celeste del cielo, il verde della vegetazione ed il rosso inteso della terra. Non ce ne sono altri.

Sulle sponde della scarpata troviamo una famiglia della tribù degli Hadzabe.

Gli Hadzabe sono una piccola tribù (meno di 200), sono gli ultimi boscimani sopravvissuti nell’Africa orientale e rappresentano uno dei più antichi popoli; probabilmente gli antenati di tutta l’umanità. Si tratta di una tribù di cacciatori/raccoglitori alcuni dei quali parlano ancora l’affascinate linguaggio click, il loro modo di comunicare fatto di schiocchi, click e fischi (probabilmente il primo linguaggio adottato dall’uomo e particolarmente indicato durante la caccia, per far si che gli animali non si insosppettiscano della presenza umana). La sopravvivenza di questa tribù e della loro cultura è oggi in serio pericolo. A causa della distruzione dei loro terriori di caccia sono sempre più quelli che decidono di abbandonare questo stile di vita. Di recente il governo della Tanzania aveva deciso di istituire nei loro territori delle riserve di caccia da dare in gestione a delle ricche società Arabe. Per fortuna grazie anche alla mobilitazione di molte associazioni umanitarie internazionali il pericolo sembra essere scampato.

Li troviamo intenti nelle loro faccende quotidiane. Le donne stanno da parte mentre accudiscono i bambini e preparano e puliscono tuberi e frutta raccolta nella boscaglia. Un gruppo di uomini è già partito di mattina presto per la caccia, mentre altri due uomini con due bambini aspettavano noi perchè li potessimo seguire a caccia. Quando arriviamo stavano ancora finendo di preparare le frecce.

Arriva il momento di partire con loro. Scendiamo la scarpata che forma una delle due sponde del fiume. La terra è di un rosso molto forte, non c’è acqua che scorre ma il suolo ne è intriso, in alcuni punti ci si sprofonda. Loro sanno dove mettere i piedi ma noi facciamo fatica. Camminiamo per un po nel letto del fiume, poi risaliamo l’altra sponda e continuiamo a risalire una ripida collina. Camminiamo su un fondo sconnesso in mezzo ad un groviglio di vegetazione spinosa. Bisogna stare spesso bassi per evitare i rami più alti che a volte come cilici rischiano di colpirti al volto. Avvistiamo molti aniamli, ma essendo in molti facciamo troppo rumore e nonostante ci abbia provato più volte il cacciatore non riesce a catturare niente.

Ad un certo punto lo vediamo gettarsi verso un cespuglio. Ci indica quella che sembra una specie di iguana. La guida ci spiega che questo animale non lo cacciano per mangiare ma solo quando hanno bisogno di curarsi. Quando hanno qualche dolore vanno in cerca di questo lucertolone, lo uccidono, ne prelevano il grasso dal lato del corpo da cui hanno il dolore e se lo spragono sulla parte dolorante.

Proseguiamo la risalita della collina ed in prossimità di un grosso baobab ci fermiamo. Notiamo una serie di pioli di legno inchiodati nella corteccia dell’albero. Vengono apposti dagli Hatzabe in modo da formare una scala per raggiungere un alveare scovato all’interno di una cavità dell’albero. Sono molto ghiotti di miele ma quando lo raccolgono non svuotano mai completamente l’alverare, dopo aver raccolto una quantità di miele che ritengono opportuna, richiudono il varco che si sono aperti nella corteccia in modo che le api si sentano al sicuro e ritornino a fromare l’alveare. In questo modo si assicurano che lalveare continui la sua esistenza.

Ci fermiamo vicino un cespuglio con delle bacche arancioni. Il cacciatore inizia a cibarsene e ci invita a fare altrettanto. Le mangiamo anche noi e non hanno uno cattivo sapore, lasciano solo la bocca un po impastata.

Continuiamo a camminare per oltre due ore ma non si riesce a catturare niente. Ad un certo punto l’uomo si ferma e attraverso una serie di schiocchi e fischi comunica con un altro gruppo. Cominciamo a scendere verso il letto del fiume dove poi ci riuniamo con l’altro gruppo di cacciatori. Gli Hadzabe poi si fermano per bere. Scavano una buca nella sabbia al centro del letto del fiume, aspettano un po che l’acqua decanti e poi bevono.

Tornati al punto di partenza, gli Hadzabe accendono in meno di un minuto un fuoco con due bastoncini di legno e si accendo una sorta di pipa e fumano. I bambini mangiano bacche da un grosso sporco pentolone.

Gli Hadzabe hanno una visione della vita e della morte molto particolare. Secondo il loro punto di vista dopo la morte non esiste niente, una volta che sei morto, sei morto e basta. Così come non hanno il culto dei defunti. I corpi dei loro defunti non li seppelliscono, li sistemano nella savana accanto ad una carcassa di un animale. In questo modo entrambi i cadaveri verranno divorati dalle iene che mangiano anche le ossa. Per questo motivo cacciano tutte le specie animali tranne le iene, perchè, dicono, equivarrebbe a praticare cannibalismo.

Cacciano di tutto e quando la preda è troppo grande per essere trasportata presso il loro villaggio, trasferiscono tutto il gruppo familiare presso la preda dove rimangono fino a quando non avranno mangiato tutto l’animale.

La guida ci dice che è arrivata l’ora di andare. Torniamo alle auto e con destinazione un villaggio Datoga ci incamminiamo. Lungo la strada ci fermiamo in un villaggio in quello che dovrebbe essere un bar. Uno di quelli con i muri dai colori sgargianti, con l’insegna Coca-Cola e con i titolare che ti serve attraverso una finestra mentre tu stai in piedi fuori, ci beviamo una bella bibita ghiacciata.

Rinfrancati dalla bibita fredda riprendiamo la marcia verso il villaggio Datoga. I Datoga sono una tribù di pastori originari della regione di Ngorongoro che sono stati scacciati dai verdi pascoli dalle tribù Masai.

I Datoga sono i nemici storici dei Masai, sono alti e longilinei e vestono con gli abiti e i colori dei Masai: come loro emigrarono dalle aree attorno al Nilo alla ricerca di pascoli per il bestiame, spingendosi fino in questa zona in Tanzania, ma arrivarono centinaia di anni prima dei Masai, per questo sono nemici poichè da secoli si contendono i pascoli. Godono di reputazione di coraggiosi guerrieri essendo parenti dei Danakil dell’Etiopia del sud, ma oggi sono pacifici e vivono dedicandosi totalmente al loro bestiame.

Arriviamo presso il villaggio, in realtà più che un villaggio è un gruppo familiare. Si tratta di tre capanne vicine circondate da cespugli di piante spinose a delimitare il perimetro per difendersi dagl animali. Gli uomini non ci sono sono in una zona vicina accanto al recinto dove lavorano il ferro.

La guida ci invita ad entrare in una capanna. La prima cosa che ti colpisce è il forte odore di fumo ed il buio che regna all’interno. Una donna nella prima stanza è intenta a macinare dei cereali con una rudimentale macina. La capanna è composta dalla stanza di ingresso più altre due. Una di queste è adibita a dormitorio, nella quale c’è una stuoia stesa a terra e tanti contenitori ricavati da zucche vuote appese al muro. L’altra stanza invece è adibita a deposito ma soprattuto vi è ospitato un alveare. Non crediamo ai nostri occhi, un alveare accanto alla stanza da letto!

Capiamo perchè la capanna puzza di fumo. Periodicamente affumicano la capanna per allontanare le api e prelevare il miele. Per lo stesso motivo il tetto e le pareti sono ricoperte di fuligine. A peggiorare la situazione contribuiscono le scarse e piccolissime aperture nelle pareti, la guida ci spiega che lo fanno per mantenere costante la temperatura interna ed evitare che le mosche si ammassino nelle stanze.

Notiamo che alcune donne hanno dei disegni sul volto. Si tratta di scarnificazioni rituali. Vengono praticati dei piccoli tagli sulla pelle sotto la quale inseriscono dei piccoli sassolini. Una volta rimarginata la ferita rimarrà sulla pelle una piccola protuberanza. Ripetono questo procedimento in modo da formare due cerchi concentrici intorno agli occhi. La stessa pratica viena usata per fare dei disegni sulla schiena. Oltre a ciò si limano anche i denti incisivi superiori. Spesso vestono di nero ed indossano dei grossi e pesanti monili di ottone.

Ci rechiamo poi nella zona dove gli uomini stanno lavorando il ferro. Raccolgono tutti gli oggetti di metallo che riescono a trovare. Poi con l’ausilio di una piccola, rudimentale ma efficace fornace alimentata da un altrettanto rudimentale mantice, riescono a fondere i metalli e colarli in degli stampi ottenendo delle barrette di metallo. Lavorando poi queste barrette con dei martelli ricavandone gli oggetti più svariati. La cosa però in cui si sono specializzati è la crezione di punte per le frecce che poi scambiano con gli Hadzabe con altri prodotti.

Terminiamo la nostra visita e consumiamo il nostro solito lunch-box. Ci dirigiamo verso il Ngoro Ngoro dove pernotteremo in un campeggio sul bordo del cratere. Ci aspettano due giorni nel cratere. Il campeggio è in una posizione bellissima è situato su una delle creste più alte delle pareti del cratere. Peccato che non si riesca a godere del panorama a causa della foresta che ne ostruisce la visuale. Le tende le troviamo già montate ed a non più di venti metri da loro, senza credere ai nostri occhi, notiamo un ingombrante ospite. Un grosso maschio di elefante sta tranquillamente mangiando erba al limite della foresta. E’ bellissimo, ha le zanne molto lunghe ed ogni tanto si cosparge di terra.

Noi gli passiamo praticamente a fianco per andare alle docce. Torniamo poi verso le tende dove i cuochi ci dicono che la cena è pronta. Ceniamo con calma e facciamo amicizia con un altro gruppo di turisti Italiani. Nel frattempo l’elefante sembra essersi dileguato. Usciamo dalla zona adibita al consumo dei pasti e ci rendiamo conto che fa veramente fresco. Ci saranno si e no 8-10 gradi. Decidiamo di andare con le auto al bar del vicino lodge a bere qualcosa. Al ritorno lungo la strada troviamo una leonessa con due cuccioli distesi nell’erba accanto alla pista.

Arriviamo al campeggio, è buio pesto, facendoci strada nel buio con la luce torce ci dirigiamo verso le tende. Istintivamente ci vien di volgere lo sguardo al cielo. E’ nettamente visbile ad occhio nudo la via lattea. La completa mancanza di inquinamento luminoso e la mancanza della luna fanno risplendere nel cielo milioni di stelle. Da un orizzonte all’altro è un’unica cupola punteggiata da milioni di puntini luminosi di svariata intensità. Mai visto un cielo così, sembra quasi di poterlo toccare, sembra quasi che ti schiacci.

Andiamo a dormire ed io benedico il sacco pelo medio/pesante che ho portato. La notte scorre tranquilla. Appena infilato nel sacco a pelo prendo sonno. Vengo svegliato durante la notte solo dal continuo ruminare di un bufalo che continuava a stappare erba praticamente accanto alla mia tenda.

I due giorni successivi li passeremo nel cratere. Ci svegliamo sempre presto per essere alle sei al varco. Due giornate dedicate al bellissimo ambiente del Ngoro Ngoro. Ci siamo imbattuti in un gruppo di grandi esemplari di elefati maschi. Uno di loro ha due maestose zanne. Amin ci spiega che al centro del cratere girano solo i maschi, mentre nella Lerai Forest, dove è più facile trovare cibo e riparo dal caldo, ci sono le femmine con i cuccioli. Ci dirigiamo allora lì.

La Lerai forest copre oltre alle scoscese pareti del cratere anche un piccolo angolo della pianura interna alla caldera. Un residuo di foresta pluviale. É attraversata da una pista in terra battuta che poi porta ad uscire dal cratere. Caratterizzata da alberi maestosi e sottobosco molto fitto, per questo è molto difficile avvistare gli animali. Mentre percorriamo lentamente lo sterrato notiamo sulla sinistra a pochi metri una femmina con due cuccioli. Ci fermiamo per fare qualche foto. Ad un certo punto l’elefante decide di attraversarci la strada, si trova a non più di cinque metri da noi. Io dico qualcosa ad Amin, l’elefante si ferma, si gira verso di noi, apre l’orecchie e rimane a fissarci per una decina di interminabili secondi. Siamo interdetti e rimaniamo tutti in silenzio ed immobili, non capiamo cosa fare, non riuscire a capire le intenzioni di un bestione del genere avendolo così vicino ti terrorizza. Non avrebbe avuto alcun problema a ribaltare l’auto. Per fortuna si rigira e prosegue con la sua goffa andatura per la sua strada mostrandoci il suo enorme posteriore.

Il secondo giorno abbiamo avvistato abbastanza da vicino i rinoceronti.

Tutti i rinoceronti hanno una vista debole, una struttura massiccia, col corpo allungato e le zampe colonnari, una testa grossa sormontata da uno o due corni che sono formati dai peli induriti. Sono erbivori ma l’alimentazione varia a seconda della specie.
Le due specie africane sono il rinoceronte nero e il rinoceronte bianco. Il primo si differenzia per la struttura più agile, il dorso insellato, le orecchie quasi tonde e, come suggerisce il nome, una colorazione più scura, anche se non propriamente nera. Il rinoceronte nero è inoltre più piccolo: i maschi misurano circa 3,75 m di lunghezza, 1,5 m di altezza alla spalla e pesano 2 tonnellate. Inoltre, il rinoceronte nero ha un labbro dalla forma ad uncino e si nutre delle foglie più basse degli alberi. Il rinoceronte bianco invece, ha il labbro quadrato e si nutre brucando l’erba ed inoltre è più grosso: i maschi misurano 3,9-4,5 metri di lunghezza, 1,8-2 metri di altezza al garrese e 2,2-3,6 tonnellate di peso. In effetti, il rinoceronte bianco è il più grosso animale terrestre dopo gli elefanti e insieme all’ippopotamo, tanto che in effetti pare che esso sia stato chiamato così per un’incomprensione, in quanto invece di “white” si volesse chiamarlo “wide”, largo, grande. Un’altra fondamentale differenza sta nel temperamento: mentre il rinoceronte bianco è pacifico e tranquillo, quello nero può rivelarsi molto aggressivo ed è famoso per le sue cariche furiose contro le jeep ed altri autoveicoli nella savana, che spesso vengono seriamente danneggiati.

Nel Ngoro-Ngoro vieve solo l’ormai raro rinoceronte nero. Ce ne sono, dicono, una trentina di esemplari, ma a ragion veduta se ne stanno ben lontani dalla piste. Avvistiamo una mamma con un cucciolo distesi al suolo e quello che siamo riusciti a vedere più da vicino si trovava ad un centinaio di metri da noi.

Si fa tardi e secondo il regolamento del parco per le sei dobbiamo essere fuori dal varco.

Il giorno successivo passiamo la mattinata sempre nel cratere. Avvistiamo una famiglia di leoni con due cuccioli piccolissimi. La madre viene a distendersi all’ombra delle auto e si mette in posizione per consentire ai cuccioli di allattarsi. Che scena. I cuccioli sembrano dei peluches della Trudi.

Pranziamo e per le due dobbiamo essere fuori per raggiungere Mto Wa Mbu dove pernotteremo in un campeggio. Prima di raggiungere il campeggio visto che abbiamo un pemesso di ventiquattro ore per il parco del lago Manyara, decidiamo di farci un giro nel parco. Questo parco è caratterizzato da una bellissima foresta ed un fittissimo sottobosco. Anche qui è difficile avvistare gli animali. Facciamo un safari notturno che dura un paio d’ore, Riusciamo ad avvistare molti animali dalle abitudini notturne come la mangusta ed il bush-baby. Avvistiamo anche un ippopotamo fuori dall’acqua.

Dedichiamo anche la mattina successiva al parco ma non riusciamo ad avvistare molto. Ci spiegano che questo parco è così, ci sono degli anni in cui ci sono molti animali ed altri in cui ce ne sono pochi, noi siamo capitati nel secondo periodo. Poco male, l’ambiente è comunque bellissimo.

Dopo pranzo saliamo in macchina, dobbiamo raggiungere l’aeroporto per il volo che ci porterà in Etiopia. Imbocchiamo la strada asfaltata. Non ci sembra vero, dopo dodici giorni di buche l’auto sembra camminare sul velluto. Affrontiamo con rassegnazione e malinconia le tre ore di viaggio che ci separano dall’aeroporto. Stiamo per lasciare la Tanzania. Il pensiero va alle bellissime scene viste nella natura selvaggia, agli animali fotografati, ai bellissimi tramonti infuocati, ai paesaggi sterminati.

Arriviamo in aeroporto e sbrigate le pratiche burocratiche di rito mangiamo qualcosa al volo al bar. Poi facciamo un giro nei negozietti e finalmente riesco a trovare le cartoline. Le compro, le compilo, le affranco, ma dove le inbuco? La signora dice che la buca per la spedizione è fuori, noi ormai siamo già nella sala di imbarco, se voglio posso lasciarle a lei che provvederà. Ha una faccia simpatica e decido di fidarmi, speriamo bene (sono arrivate venti giorni dopo di me, ma sono arrivate!)

Arriva il momento di imbarcarci. Prendiamo il nostro volo con destinazione Addis Abeba dove faremo una sosta di un giorno alla ricerca dei Babbuini Gelada.

Un proverbio cinese dice: “la persona che ritorna da un viaggio non è mai la stessa che è partita!”. Ovviamente fisicamente non è così, ma un viaggio come questo sicuramente ti lascia il segno, ti apre gli occhi su tanti aspetti della vita quotidiana che dai per scontati, ti insegna ad apprezzare maggiormente quello che hai. Ma soprattutto ti fa capire quanto la natura sia allo stesso tempo forte ma vulnerabile, generosa ma spietata. Capisci quanto sia fragile l’equilibrio naturale delle cose, quell’equilibrio che stiamo distruggendo, quell’equilibrio senza il quale anche la nostra vita, distante migliaia di chilometri da quel mondo, sarà sempre più difficile.


Per le foto vi rimando al mio sito:

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Messaggio  MANDY Lun Set 06, 2010 12:42 am

Mi son commossa...immagini spettacolari...su tutte quella dei bimbi con le mani tese, e le jeep avvolte dalla terra...

Non puoi capire quanto sia felice di avere questo tuo racconto sul mio forum...è davvero molto potente, grazie ancora.
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Messaggio  darioca Lun Set 06, 2010 12:46 am

La commozione? vedrai quando andrai laggiù.....al itorno avrai un nodo in gola per parecchio tempo e sentirai costantemente il "bisogno" di tornarci Wink

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Messaggio  MANDY Lun Set 06, 2010 12:55 am

ne son certa...vivo ancora delle emozioni che mi ha regalato l'esperienza in Kenya nel 2005, e son certa che la Tanzania mi farà rivivere le stesse sensazioni contrastanti...

Dopo il Kenya ho fatto altri viaggi per me importanti...ma posso dire in tutta onestà che NESSUNO (nemmeno quest'ultimo viaggio tra Borneo e Malesia che è stato pazzesco perchè è durato 40 giorni...) mi ha coinvolta in quel modo...
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